Se passate per Londra prima del 23 Aprile, andate a vedere l’installazione di Richard Mosse al Barbican. Non avete scuse: è gratis.
Non è un pacato suggerimento, non è neanche un consiglio, è un avvertimento dato col tono con cui si direbbe “corri!” a uno che non si sia accorto di essere davanti alla porta aperta della gabbia delle tigri.
Sempre in omaggio al principio per cui le recensioni obiettive non esistono, giochiamo a carte scoperte: a me non piacciono (quasi mai) le installazioni. Sono pochissimi gli esempi di questa particolare espressione artistica che mi sia mai capitato di trovare autenticamente comunicativi ed efficaci.
Sarà perché si tratta di un mezzo ancora relativamente giovane, ma non sono molti gli artisti che siano riusciti, fino a questo momento, a sfuggire alla tentazione del pretenzioso e dell’autoreferenziale.
Richard Mosse si è avventurato in un territorio dove il rischio di cadere nella retorica era altissimo ed è riuscito a produrre un’opera colossale, cruda, rigorosa ed essenziale, dall’impatto visivo ed emotivo devastante.
Incoming, attualmente accessibile nella sezione del Barbican denominata The Curve, è un’installazione multicanale creata da Mosse in collaborazione con il compositore minimalista Ben Frost e il regista Trevor Tweeten, che immerge lo spettatore nell’esperienza disumana della migrazione.
Il rischio, quando un artista si appresta a realizzare un’opera su questo tema, specie se con un approccio documentaristico, è quello di viziare la prospettiva con una certa dose di paternalismo occidentale (perché questo genere di documentari sono solitamente ideati e diretti da occidentali) e, soprattutto, con la propria presenza nel mezzo dei fenomeni che intendono osservare. È il principio di indeterminazione di Heisenberg applicato all’attività documentaristica: l’atto stesso di osservare un fenomeno lo altera.
Richard Mosse si è servito esclusivamente di fotocamere ideate per uso militare, la cui caratteristica principale è quella di rilevare gli oggetti osservati esclusivamente in base al calore, individuando un corpo umano a 30 chilometri distanza e permettendo l’identificazione accurata di un volto a oltre sei chilometri. L’occhio del quale ci serviamo per accedere a questa esperienza è esattamente quello di un’arma a lunga gittata, poiché è per questo tipo di utilizzo che la tecnologia utilizzata da Mosse è stata progettata.
In questo caso, assai più di quanto non capiti in media nell’arte contemporanea, il mezzo È il messaggio.
Nello specifico, il mezzo è un messaggio a sé, non necessariamente lo stesso espresso dal contenuto. La scelta delle fotocamere è politica, prima ancora che tecnica.
Mosse si fa documentarista puro, occhio che non interviene, che osserva senza interferire e senza neanche entrare in contatto con il dramma che sta raccontando – come tutti noi, quando osserviamo più o meno impassibili immagini di tragedie che si svolgono in un generico altrove.
Allo stesso tempo, nell’utilizzare questa particolare tecnologia, l’artista la disinnesca, ne ribalta lo scopo. Da elemento di supporto alle azioni militari, la fotocamera si fa strumento di un giudizio morale e di una protesta implicita. Perché, come già detto, non facciamoci illusioni: se l’obiettività non esiste, non è obiettivo neppure Richard Mosse.
L’artista è un occhio distante, ma è anche la mente che opera un montaggio, che crea accostamenti, che racconta una storia laddove una storia non necessariamente esiste, perché ne esistono tante e non si possono raccontare tutte insieme.
Quello che noi vediamo è il frutto di una scelta, della selezione di immagini giustapposte per un fine narrativo, proiettate su tre schermi enormi, su una parete ricurva, con il tessuto sonoro curato meticolosamente da Ben Frost per disorientarci, per farci sentire sperduti.
La storia che ci si presenta è un’epopea terrificante che accosta dettagli prosaici e tragedie, lo scintillio di armi a lunga gittata – che illuminano la notte in un modo che di recente, sull’emittente MSNBC, è stato definito “bellissimo” – e l’assideramento di chi approda su coste che dovrebbero essere sicure e invece non lo sono, la quotidianità della vita nei campi profughi e l’enormità dell’attraversamento di un deserto.
Tutto questo racconto ci arriva in forma di bianchi e neri lucidi, carichi, cesellati con precisione entomologica da un occhio inflessibile, che riconosce la vita anche al buio e che non identifica il colore della pelle, ma rileva benissimo il freddo delle estremità e il caldo delle labbra disidratate.
Andate a vedere questa installazione, dovunque vi capiti di trovarla. Tutti dovrebbero vedere l’essere umano attraverso gli occhi di un missile, almeno una volta nella vita. E non perché sia piacevole, ma perché è necessario.
LONDON, ENGLAND – FEBRUARY 14: Incoming, Richard Mosse in collaboration with Trevor Tweeten and Ben Frost at The Curve, Barbican on February 14, 2017 in London, England. The exhibition runs from 15 February – 23 April 2017. (Photo by Tristan Fewings/Getty Images for Barbican Art Gallery)
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Angela Fiore vive a Berlino e lavora da consulente marketing e blogger freelance, ma non ritiene di essere un cervello in fuga. Attualmente contribuisce ai contenuti dei due blog dell’agenzia Smart Eventi e progetta carriere artistiche che poi non intraprende. Risponde con gioia a qualsiasi domanda sul welfare in Germania, ma non sa assolutamente nulla dei club berlinesi più cool e non può aiutarvi a entrare al Berghain.